Parte quinta dal libro: Architettura e modernità, Dal Bauhaus alla
rivoluzione informatica, Antonino Saggio
Gli anni del linguaggio: 1968-77
Da House II al Byker Wall
IMPLOSIONE
IMPLOSIONE
Peter Eisenman, House II, Hardwich 1969-70 |
20. Nuove libertà
Lo spirito
nuovo di liberazione della primavera del 1968 esplode e si espande come un Big
Bang in ogni dimensione e traiettoria: artistica, sociologica, politica,
filosofica. La società dei grandi numeri e delle manifestazioni pubbliche cerca
di espandersi attraverso il personal
computer, come affermazione personale della propria autonomia rispetto alle
istituzioni che fino ad ora avevano detenuto il potere di calcolo. E’ un
giocattolo rivoluzionario che permette di costruire e trasformare il mondo, è
ormai un prodotto di consumo non più alienante come era considerato
nell’immediato dopoguerra. I benefici del progresso superano le perplessità
iniziali.
Sperimentazioni diagonali
La creazione spaziale all’inizio degli anni ’70 è alla
ricerca di dinamicità, trasversalità, di percorsi che frammentano piani, rampe,
piattaforme a diverse quote (Claude Parent, Padiglione Francese alla Biennale
di Venezia, 1970). L’architettura e l’arte si ibridano e si sperimentano a
vicenda.
In architettura il tema della liberazione viene affrontato da Günther Benisch nel Parco Olimpico di Monaco del 1972, nel quale l’idea del villaggio si traduce in una tensostruttura che si estende oltre lo stadio: trasparenza,vitalità,apertura.
Nel 1971 John Johansen dà corpo ad una musica che esplode nello spazio del Mummers Theater ad Oklahoma City. Si presenta in pezzi autonomi che si compongono attraverso le corde dei suoi tubi-percorsi. L’edificio non esiste più, è uno strumento, la scatola è smantellata.
Renzo Piano e Richard Rogers vincono il concorso per il centro di arte contemporanea ricavato dall’abbattimento dei mercati delle Halles nel centro di Parigi. Il Centre Pompidou è un’architettura senza stile nella quale tutti i sistemi di circolazione sono posizionati all’esterno per lasciare l’interno a disposizione dei diversi e mutevoli utilizzi, anche nel tempo. La libera fruizione dell’arte rende l’opera libera, senza immagine e ancillare al suo contenuto. La tendenza High Tech sconvolge l’idea industriale di architettura ed esalta la sua componente efficientistica. Il programma si basa sulla fruizione libera nello spazio e nel tempo.
In architettura il tema della liberazione viene affrontato da Günther Benisch nel Parco Olimpico di Monaco del 1972, nel quale l’idea del villaggio si traduce in una tensostruttura che si estende oltre lo stadio: trasparenza,vitalità,apertura.
Nel 1971 John Johansen dà corpo ad una musica che esplode nello spazio del Mummers Theater ad Oklahoma City. Si presenta in pezzi autonomi che si compongono attraverso le corde dei suoi tubi-percorsi. L’edificio non esiste più, è uno strumento, la scatola è smantellata.
Renzo Piano e Richard Rogers vincono il concorso per il centro di arte contemporanea ricavato dall’abbattimento dei mercati delle Halles nel centro di Parigi. Il Centre Pompidou è un’architettura senza stile nella quale tutti i sistemi di circolazione sono posizionati all’esterno per lasciare l’interno a disposizione dei diversi e mutevoli utilizzi, anche nel tempo. La libera fruizione dell’arte rende l’opera libera, senza immagine e ancillare al suo contenuto. La tendenza High Tech sconvolge l’idea industriale di architettura ed esalta la sua componente efficientistica. Il programma si basa sulla fruizione libera nello spazio e nel tempo.
La partecipazione
La società
degli anni ’60 ha mutato i propri valori culturali per accogliere scelte
multiple; si scopre che esistono scale intermedie dell’abitare, dove non c’è
più una netta distinzione tra lo spazio privato e quello pubblico, tra la casa
e la strada. L’architettura delle relazioni è uno spazio partecipato nel quale
l’architetto perde la propria posizione dogmatica per accogliere le indicazioni
dei fruitori attivi. Lucien Kroll nel 1969 è invitato dagli studenti a
progettare un edificio di dormitori per gli studenti della facoltà di medicina
di Woluwé attraverso lo scambio di idee, di esperienze, di soluzioni secondo un
processo di assemblaggio. Il collage
informale, il patchwork mette in
crisi le macrostrutture che si costruiscono contemporaneamente in tutto il
mondo occidentale per accogliere una sperimentazione che riproporziona
continuamente spazi comuni, privati, terrazze, vegetazione che si insinuano
vicendevolmente nell’edificio.
Anche il Team X partecipa al concorso di case sperimentali a Lima come banco di prova dell’abitare alternativo. Ricordiamo le case a Delft di Hermann Hertzberger del 1967, il Villaggio Matteotti di De Carlo a Terni, il complesso a Ivry di Jean Renaudie.
Il Cohousing è stato lanciato e realizzato da Jan Gudmand-Høyer e persegue i principi di: multigenerazionalità degli utenti, uso collettivo di alcuni spazi e servizi, territorialità, progettazione, costruzione e gestione “dal basso”. Lo studio Tegnestuen VandKunsten realizza su questi principi il complesso Savværket nel quale lungo un percorso coperto segmentato da spazi ad “L”, si aprono attrezzature soft edge tra la sfera privata e pubblica. Sullo stesso tema ritroviamo Ralph Erskine con il Byker Wall a New Castle, attento alla realtà degli utenti e alle loro specificità culturali; il suo approccio non esclude gli esiti formali, in quanto il grande Wall è un landmark, e nemmeno quelli per tessuto, rivolti alla micro-scala residenziale e alle relazioni della comunità.
Anche il Team X partecipa al concorso di case sperimentali a Lima come banco di prova dell’abitare alternativo. Ricordiamo le case a Delft di Hermann Hertzberger del 1967, il Villaggio Matteotti di De Carlo a Terni, il complesso a Ivry di Jean Renaudie.
Il Cohousing è stato lanciato e realizzato da Jan Gudmand-Høyer e persegue i principi di: multigenerazionalità degli utenti, uso collettivo di alcuni spazi e servizi, territorialità, progettazione, costruzione e gestione “dal basso”. Lo studio Tegnestuen VandKunsten realizza su questi principi il complesso Savværket nel quale lungo un percorso coperto segmentato da spazi ad “L”, si aprono attrezzature soft edge tra la sfera privata e pubblica. Sullo stesso tema ritroviamo Ralph Erskine con il Byker Wall a New Castle, attento alla realtà degli utenti e alle loro specificità culturali; il suo approccio non esclude gli esiti formali, in quanto il grande Wall è un landmark, e nemmeno quelli per tessuto, rivolti alla micro-scala residenziale e alle relazioni della comunità.
Lo studio Tegnestuen Vandkunsten
è in prima linea e realizza tra l’altro il complesso di Savvaerket, dove lungo
un percorso coperto a galleria si aprono attrezzature di filtro tra la scala
privata e quella collettiva. Il progetto è localizzato a Jystrup in Danimarca e
organizza 21 unità di vario taglio e superficie adatte a ospitare i diversi
tipi di residenti che rispondono alla differenziazione sociale e generazionale
del programma di Cohousing. La
strada interna si divide a “L” in due braccia e ha andamento segmentato che ne
riduce la dimensione percettiva. Lungo il suo sviluppo sono localizzati dei
servizi quali la lavanderia, camere per ospiti, il laboratorio di cucito e di
falegnameria mentre all’incrocio delle due braccia si trova la sala
comune. Lungo il percorso di
distribuzione si realizza una soft edge (spazio di filtro tra privato e
collettivo) che ha una serie di piccoli spazi e attrezzature di estrema
importanza per l’effettivo raggiungimento degli scopi comunitari. Il Cohousing
realizza una sola filosofia di abitare, ma anche un modo di promuovere,
sviluppare, progettare, realizzare e gestire il complesso ed elabora un preciso
gruppo di informazioni.
Il punto più alto di questa
ricerca sull’architettura della partecipazione è il Byker Wall a Newcastel in
Scozia di Ralph Erskine, processo iniziato nel 1969 e protrattosi per circa
dieci anni. Per seguire la complessa vicenda della progettazione e della
costruzione Erskine crea la sede del suo studio in un edificio riadattato
all’interno del quartiere. Lo studio è anche la sala comune del quartiere e il
luogo delle riunioni tra abitanti e architetto e il luogo simbolico del
progetto. Erskine progetta un grande muro ondulato in pianta e in sezione che
si muove sulla pendice della sommità di Nwecastle. Il muro dialoga con la città
segnando un profilo altalenante e allo stesso tempo racchiude e protegge
termicamente l’intervento. Due trattamenti opposti lo caratterizzano sui
diversi fronti. Verso settentrione è formato da una scorza dura in laterizio
mutlicolore con alcune sporgenze volumetriche che mordono il cielo, metro la
parte interna, prevalentemente a meridione e concava è caratterizzata dai
percorsi di distribuzione, dalle terrazze, dalla vegetazione e da un mondo
informale che accoglie ed esalta la luce. Il muro contiene alloggi di piccolo e
medio taglio serviti attraverso un percorso pensile, ma con il suo andamento
protegge anche climaticamente il resto del complesso, che è formato da case a
tessuto di due o tre piani che determinano quel misto di situazioni spaziali di
diversa caratteristica.
21.Al centro, la lingua
L’altro sessantotto
“Tais toi, object”; questo slogan
incarna quella doppia anima che caratterizzerà la biforcazione del mondo delle
arti e naturalmente dell’architettura degli anni seguenti. Da una parte il
contenuto sta ad indicare la volontà di liberazione dalla schiavitù meccanica,
quindi si rivendica la consapevolezza e la partecipazione dell’individuo ai
processi sociali, politici e interpersonali. Ma dall’altra parte “Tais toi,
object” rileva un gusto estremo per il linguaggio in sé, per la sua struttura,
per la sua propria autonoma forza.
Questa doppia direzione è
evidente innanzitutto nelle arti. Ad’ esempio con la nascita dell’arte povera,
la Boby Art o l’Arte comportamentale e con artisti come Pistoletto, Pascali,
Kounellis.
Su questa direttrice nasce in
questi anni un’architettura che si pone come riflessione sui propri meccanismi
e sui propri statuti. Il linguaggio in sé diventa il centro della riflessione
architettonica e il luogo centrale del dibattito.
Per capire questa impostazione
bisogna allineare una serie di fenomeni e di influssi. Per il campo della
filosofia abbiamo le ricerche di Linguistica strutturale, con attenzione agli
studi di Saussure di inizio secolo poi di Jakobson e della Scuola di Praga e
alla stessa logica formale di Russell e Wittgenstein. L’architettura è
pervasa/invasa da questo interesse per la lingua, per la sua logica e quindi
dalla rivendicazione di essere, l’architettura stessa, in primis “linguaggio”.
Colin Rowe aveva lavorato da alcuni decenni su quest’impostazione formalistica.
John Summerson dedica un libro alle categorie di analisi linguistica e ai
rapporti stretti che legano tra loto gli elementi del linguaggio e pubblica nel
1963 il linguaggio classico
dell’architettura e Bruno Zevi in Italia contrappone al linguaggio classico
le invarianti moderne in il linguaggio
moderno dell’architettura del 1973. Qui si tratta di un anticodice che
stabilisce una serie di negazioni (no al monumentalismo, no alla simmetria),
non le regole come nel caso del linguaggio classico. Inventario di contenuti e
funzioni, asimmetria e dissonanze, tridimensionalità antiprospettica,
decomposizione, strutture in aggetto ecc…
Nascono scontri furiosi sul
linguaggio dell’architettura. Naturalmente Aldo Rossi ha codificato un preciso
apparato espressivo volutamente “anti moderno” perché basato sui tipi di
origine metafisica e su una serie di memorie di forme plastiche distillate dai
ricordi personali e da archetipi sovrastorici. In America emerge un gruppo di
architetti che sostengono l’estremizzazione del momento sintattico e formale in
una chiave completamente astratta. Sono i New York Five.
I NY Five
I componenti del New York Five
sono: Peter Eisenman, Michael Graves, John Hejduk, Richard Meier, Charles
Gwathmey poi associato con Robert Siegel. Peter Eisenman, appare da subito la
personalità di maggior spessore teorico. Esso educato al formalismo di Colin
Rowe, si era addottorato con una tesi che si intitolava The Formal Analysis of Modern Architecture. Il lavoro si concentra
sull’analisi esclusivamente formale degli edifici e rivendica la centralità dei
processi linguistici e sintattici che presiedevano l’opera. Un secondo influsso
in Eisenman è quello dell’arte concettuale che, sul fronte opposto all’arte
povera, si muoveva per promuovere un’assoluta scarnificazione delle forme. Ma
il centro più profondo è nella posizione del filosofo e psicologo Michel
Foucault. Il giovane Eisenman sostiene con Foucault che nessuna rivoluzione è
avvenuta nell’architettura moderna perché persiste la stessa posizione del
Rinascimento, una posizione umanistica che sempre pone al centro l’uomo.
Bisogna spostare fuori dall’uomo la riflessione e il ragionamento dell’arte. Il
modernismo termine apparentemente mutuato da Foucault, per Eisenman rappresenta
la rottura della centralità umanistica, l’esaltazione del momento
autoreferenziale e autonomo della ricerca estetica. L’oggetto-architettura deve
esistere di per sé, rispondere alle sue leggi interne, non derivare o acquisire
valore da un contenuto umano. L’uomo non è causa e ragione. Oggetti ed edifici
sono idee.
L’architettura diventa “testo”,
per rappresentare “la struttura formale di una narrazione”, non per veicolare
il complesso dei significati ideologici, funzionali, sociali, costruttivi.
Le case
Eisenman sa che la merce del
mondo occidentale è diventata la conoscenza.
Ma essa deve essere “formalizzata”: resi espliciti, trasmissibili e
comunicabili i meccanismi di legittimazione dell’opera. Assieme agli schemi
nasce cosi una formula che colpisce e fa guardare il mondo delle costruzioni
come una lente diversa. Architettura di Carta. Cosi a cominciare dal 1967
Eisenman progetta una serie di case che, come composizione musicale, portano un
numero progressivo. Le case vogliono essere di carta non tanto per il loto
aspetto leggero, quasi immateriale, quanto per sottolineare il substrato
concettuale che le ha generate. Ma per progettare serve un linguaggio ed
Eisenman non ne possiede ancora uno e sceglie quello meno consumato nel
contesto statunitense del momento. Rowe lo aveva mosso alla riscoperta del
Purismo Lecorbusiano, del Neoplasticismo e soprattutto del Razionalismo di
Terragni, Lingeri o Cattaneo. Lui principalmente è attratto da due opere di
Terragni: la casa del Fascio e la casa Giuliani-Frigerio.
La casa del Fascio di basa su un
processo di estrazione di materia e di stratificazione verso l’interno, la
Giuliani-Frigerio invece si muove dall’interno verso l’esterno con una
esplosione delle parti secondo una logica sintattica più vicina al
Neoplasticismo. Il problema per un ricercatore come Eisenman è quello di
lavorare dentro questa differenza e tensione tra estrazione ed esplosione.
Nella House II (Residenza Falk a
Hardwick, 1969-70), avvicinabile al Neoclassicismo, presenta il conflitto.
Eisenman riprende dalla Casa del Fascio l’idea di un quadrato in pianta che
viene compresso in alzato nello stesso rapporto di ½ adoperato da Terragni. Ma
il semi cubo che egli genera non è più compatto perché viene modulato
tridimensionalmente in nove quadrati che vengono abitati lungo una “L” e
lasciati liberi nella doppia altezza della corte interna (una geometria
estranea alla Casa del Fascio e alla Giuliani-Frigerio). Quindi lui lavora
molto sullo slittamento e sovrapposizione dei cubi, per lasciare posto alla
circolazione verticale e orizzontale anch’essa derivata da Terragni e che
Eisenman adotta anche in alzato. La perimetrazione esterna richiama la presenza
della forma primaria e lo stesso uso del telaio della Casa del Fascio, ma
l’interno mette in azione lo slancio dinamico della Giuliani-Frigerio. Il
telaio di conseguenza non definisce più, come nella Casa del Fascio, intagli
geometrici sul cubo, ma diventa un piano astratto, una struttura trasparente
lasciata all’esterno per trattenere i piani che esplodendo vorrebbero eliminare
la gabbia.
La soluzione che Eisenman dà al
conflitto che aveva scoperto in Terragni ha una parola: implosione. Un’esplosione delle pareti, dei piani, dei volumi che
non invade l’interno, ma che è rivolta verso il dentro, verso sé stessa. Una violenta reazione chimica viene
trattenuta ed esaminata dentro una provetta.
Differenze e diagrammi
I temi posti in maniera estrema
del teorico del gruppo Eisenman hanno sviluppo negli altri architetti del New
York Five. Le opere di Hejduk
elaborano una delle componenti della ricerca lecordusieriana ( i volumi puri),
innestandovi le tarde composizioni del maestro: oggetti a reazione poetica sono
lanciati nello spazio e collegati da meccanismi di percorso che anch’essi
diventano oggetti. Le prime case di Graves
giocano con il collage, una presenza quasi surreale di pennelli dipinti e
soprattutto con un uso prezioso del colore. Le opere di Meier invece partono dal programma organizzativo. Il bianco è il
non-colore che adotta sempre e il suo comporre astratto si basa in realtà su
una nuova forma di figurazione. Non più quella tradizione degli elementi e dei
punti di vista privilegiati, della simmetria e degli ordini, bensì quella delle
funzioni. I collegamenti sono le basi del suo comporre. Meier in questa fase è
un abile e dotato meccanico delle funzioni come dimostrano gli schemi che
sempre accompagnano i suoi progetti.
Alla metà degli anni settanta in
portogallo comincia ad affermarsi il lavoro di Alvaro Siza che mosso da un ispirato geometrismo cerca di captare i
caratteri spirituali di semplicità austera di alcune costruzioni della sua
terra. In Giappone muove i primi passi l’architetto Tadao Ando che rivela sin dal Complesso Rokko e Kobe, realizzato a
partire dal 1978, un senso forte e potente della forma architettonica che
progressivamente acquisterà grande sapienza nel controllo della luce, dello
spazio intercluso tra gli edifici. Sono alcuni temi che arrivano ad Ando a
partire dalle lezioni di Louis Kahn e
che sono praticati anche dal giovane Mario
Botta. Formatosi in Italia, l’architetto ticinese crea opere che forme pure
a contatto con l’ambiente. Le sue popolarissime case, in particolare quella di
Riva San Vitale del 1973, che rimane tra le sue opere più suggestive,
elaborando una dialettica di contenitore-contenuto (contenitore è una scatola
vuota entro la quale di colloca uno scrigno articolato e libero). Sempre in
Ticino opera lo studio di Campi e Pesina che con altri crea una scuola di
pensiero che da una parte guarda al razionalismo italiano dell’altra al
dibattito internazionale. Cosi i nomi di Botta, Vacchini, Snozzi, Galfetti,
Rchat, Campi, Bianconi, Gianola, Reinhard e Reichlin hanno identificato, nel
programma internazionale, una ricerca di onestà costruttiva, di aderenza ai dati
del programma, di eleganza di forme e proporzioni che nascono dalle ragioni
profonde del progetto e non da facili effetti di facciata.
22.Post-mo
Inclusivismo
Alcuni critici come Peter Blake
avevano cominciato ad attaccare con forza le impostazioni del Movimento
moderno, il vero evento critico è l’uscita di un fascicolo di “Architectural Design” nel 1977 dopo poco
edito in un libro con medesimo titolo: Post
Modern Architecture. Qui un architetto e critico americano, Charles Jencks,
ripercorre le vicende dell’architettura del dopoguerra; tre aspetti sono
centrali nel suo discorso e nella successiva posizione chiamata “post-moderna”
in architettura. Il primo è quello di
un ritorno consapevole della figurazione contro l’astrazione. Il secondo elemento significativo del
discorso post-moderno è la centralità nuova che assume il luogo, ovvero il
contesto in cui sorge la nuova architettura. Il terzo, strettamente legato
al precedente, è l’assunzione di centralità del tema della “città”. Torna la
strada, la piazza, il blocco urbano e l’isolato come d’altronde Aldo Rossi
aveva da un quindicennio teorizzato.
Il museo
La data del 1973 è simbolica. Lo
scoppio della crisi petrolifera, che spinse a provvedimenti di austerità in
tutto il mondo occidentale, porta alla luce i limiti di uno sviluppo basato
sull’uso indiscriminato delle risorse naturali. Il centro di interesse si
sposta dall’espansione alla conservazione: il miglioramento degli spazi e delle
strutture esistenti sale al primo posto. Questo mutamento comporta anche
un’attenzione al museo che sostituisce nella ricerca architettonica la
centralità che gli auditorium o le grandi attrezzature sportive avevano svolto
nel decennio precedente. Quindi innesta un processo che diventerà sempre più
marcato verso la multifunzionalità dell’organismo non solo nella
diversificazione dell’offerta espositiva, ma anche attraverso l’inserimento di
strutture commerciali, ricreative ed educative. La Germania è il paese
all’avanguardia di questo modo di impostare il tema museale. L’inglese James
Stirling e l’austriaco Hans Hollein ne sono due tra i più attenti interpreti,
perché la presenza del frammento fa parte del loro repertorio espressivo.
La condizione manierista. Stirling e Hollein
James Stirling è negli anni
settanta uno degli architetti di maggiore successo internazionale e senza
dubbio uno degli interpreti più intelligenti delle caratteristiche di
transizione di questa fase. Nei primi anni 50 realizza un piccolo progetto di
Housing (Case a Preston), dal progetto emergeva una ricerca che guardava ad
alcune forme ricorrenti e ad alcune immagini tipiche dei sobborghi industriali
inglesi. Quindi l’intervento non si dava come soluzione funzionale al
programma, ma era “prima” una composizione di immagini e solo “poi” soluzione
al tema. Nei primi anni settanta, Stirling amplia il suo repertorio di
riferimento e comincia a essere interessato a quanto precede la tradizione
modernista. In un progetto emblematico come quello per il centro di Derby è
evidente che all’abituale repertorio di citazioni moderniste delle opere
precedenti si sposa una ricerca di un impianto tipologico ben riconoscibile
(nello spazio a galleria anulare) e un’apertura alle citazioni classiche.
Stirling rappresenta in questa fase una posizione che viene etichettata
“manieristica”, termine in gran voga anche per un insuperato e bellissimo saggi
di Arnold Hauser appunto sul manierismo.
La città di Stoccarda, in
Germania, è tra le prime che riesce a completare un’opera che incorpora
quest’insieme di caratteristiche. Nel 1977 James Stirling vince un concorso per
realizzare un Museo d’arte, dove lui estende la sua attenzione dell’eredità
formale dei padri del moderno a un patrimonio ancora più vasto. Studiando
Schinkel e il neoclassicismo tedesco del XIX secolo scopre la rilevanza che
assume il tema della centralità nelle organizzazioni museali e caratterizza il
centro del complesso come una piazza rotonda circondata da rampe. Studiando
Aalto è affascinato da alcuni andamenti obliqui delle pareti e crea un muro a
doppia inclinazione che ne è diretta emanazione. Le finestre degli uffici
riprese da quelle di Le Corbusier nel Weinsenhof. Allo stesso tempo Stirling
riesce a tenere quasi incredibilmente “insieme” l’opera sviluppando il tema del
frammento, della rovina e sposando il “non finito” pur ricorrendo a un impianto
planimetrico molto rigido. Un atteggiamento vicino a quello di Strirling è
quello dell’architetto Hans Hollein che della doppiezza, dello stridore degli
accoppiamenti, insieme a una notevole forza inventiva, una propria
caratteristica. Anche Richard Meier
inizia nella seconda parte degli anni settanta una produzione che si farà
particolarmente estesa sul tema museale. Meier non adotta la logica
frammentaria e collegista di Stirling e Hollein, ma adotta un linguaggio
astratto di derivazione neoplastica.
Il centro è dove è l’azione
L’architettura trattata in questa
parte non è riuscita a imporre una generalizzata presa di coscienza delle
istanze libertarie della nuova società perché le sperimentazioni, sono rimaste
del tutto minoritarie; sul fronte critico dell’analisi del testo si è chiusa in
un autocompiacimento sul linguaggio e sulla sua autonomia vuoi nel versante
delle forme pure e metafisiche italiane che in quelle neoplastiche dei
newyorchesi. Forse per trovare architetture veramente persuasive, bisogna
tornare a guardare architetti e costruttori fuori dai circuiti consolidati: il
grande Oscar Niemeyer che continua il suo lavoro originale e forte, l’indiano
Charles Correa, alcuni liberi e quasi selvaggi, instancabili sperimentatori
come Amancio Pancho Guendes in Monzambico. Si può parlare di architettura, di
linguaggio, senza dover sempre legittimare pragmaticamente, razionalmente,
funzionalmente ogni scelta. Si può accettare l’eterogeneità delle fonti di
ispirazione, si possono ibridare generi e ricerche e il contesto sta per
diventare una chiave imprescindibile del lavoro dell’architetto contro ogni
pura astrazione meccanicistica.
E nel 1977 si compie un dramma, troppo
poco ricordato. Takis Zenetos è un architetto greco geniale e impegnato nella
costruzione e anche nella ricerca dell’impatto dell’elettronica nella città
nell’architettura. Zenetos non è stato solo un giovane utopista come poche o
nessuna costruzione alle spalle (come furono nel corso degli anni sessanta
alcuni architetti), ma ha costruito opere di qualità che alimentavano i temi
della sua ricerca sul tema dell’elettronica e allo stesso tempo da questi
venivano arricchiti. Si uccise tuffandosi nel vuoto. A guardarlo oggi è un
gesto drammatico e sommo. Un suicidio per l’architettura.
<<Gli anni 70 erano pieni
di speranze e poi tutti si sono depressi, e i 70 sono stati terribili>>
John
Lennnon
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