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Gli anni del linguaggio: 1968-77


Parte quinta dal libro: Architettura e modernità, Dal Bauhaus alla rivoluzione informatica, Antonino Saggio
Gli anni del linguaggio: 1968-77
Da House II al Byker Wall

                                                                   IMPLOSIONE
Peter Eisenman, House II, Hardwich 1969-70   











20. Nuove libertà
Lo spirito nuovo di liberazione della primavera del 1968 esplode e si espande come un Big Bang in ogni dimensione e traiettoria: artistica, sociologica, politica, filosofica. La società dei grandi numeri e delle manifestazioni pubbliche cerca di espandersi attraverso il personal computer, come affermazione personale della propria autonomia rispetto alle istituzioni che fino ad ora avevano detenuto il potere di calcolo. E’ un giocattolo rivoluzionario che permette di costruire e trasformare il mondo, è ormai un prodotto di consumo non più alienante come era considerato nell’immediato dopoguerra. I benefici del progresso superano le perplessità iniziali.

Sperimentazioni diagonali
La creazione spaziale all’inizio degli anni ’70 è alla ricerca di dinamicità, trasversalità, di percorsi che frammentano piani, rampe, piattaforme a diverse quote (Claude Parent, Padiglione Francese alla Biennale di Venezia, 1970). L’architettura e l’arte si ibridano e si sperimentano a vicenda.
In architettura il tema della liberazione viene affrontato da Günther Benisch nel Parco Olimpico di Monaco del 1972, nel quale l’idea del villaggio si traduce in una tensostruttura che si estende oltre lo stadio: trasparenza,vitalità,apertura.
Nel 1971 John Johansen dà corpo ad una musica che esplode nello spazio del Mummers Theater ad Oklahoma City. Si presenta in pezzi autonomi che si compongono attraverso le corde dei suoi tubi-percorsi. L’edificio non esiste più, è uno strumento, la scatola è smantellata.
Renzo Piano e Richard Rogers vincono il concorso per il centro di arte contemporanea ricavato dall’abbattimento dei mercati delle Halles nel centro di Parigi. Il Centre Pompidou è un’architettura senza stile nella quale tutti i sistemi di circolazione sono posizionati all’esterno per lasciare l’interno a disposizione dei diversi e mutevoli utilizzi, anche nel tempo. La libera fruizione dell’arte rende l’opera libera, senza immagine e ancillare al suo contenuto. La tendenza High Tech sconvolge l’idea industriale di architettura ed esalta la sua componente efficientistica. Il programma si basa sulla fruizione libera nello spazio e nel tempo.
La partecipazione
La società degli anni ’60 ha mutato i propri valori culturali per accogliere scelte multiple; si scopre che esistono scale intermedie dell’abitare, dove non c’è più una netta distinzione tra lo spazio privato e quello pubblico, tra la casa e la strada. L’architettura delle relazioni è uno spazio partecipato nel quale l’architetto perde la propria posizione dogmatica per accogliere le indicazioni dei fruitori attivi. Lucien Kroll nel 1969 è invitato dagli studenti a progettare un edificio di dormitori per gli studenti della facoltà di medicina di Woluwé attraverso lo scambio di idee, di esperienze, di soluzioni secondo un processo di assemblaggio.  Il collage informale, il patchwork mette in crisi le macrostrutture che si costruiscono contemporaneamente in tutto il mondo occidentale per accogliere una sperimentazione che riproporziona continuamente spazi comuni, privati, terrazze, vegetazione che si insinuano vicendevolmente nell’edificio.
Anche il Team X partecipa al concorso di case sperimentali a Lima come banco di prova dell’abitare alternativo. Ricordiamo le case a Delft di Hermann Hertzberger del 1967, il Villaggio Matteotti di De Carlo a Terni, il complesso a Ivry di Jean Renaudie.
Il Cohousing è stato lanciato e realizzato da Jan Gudmand-Høyer e persegue i principi di: multigenerazionalità degli utenti, uso collettivo di alcuni spazi e servizi, territorialità, progettazione, costruzione e gestione “dal basso”. Lo studio Tegnestuen VandKunsten realizza su questi principi il complesso Savværket nel quale lungo un percorso coperto segmentato da spazi ad “L”, si aprono attrezzature soft edge tra la sfera privata e pubblica. Sullo stesso tema ritroviamo Ralph Erskine con il Byker Wall a New Castle, attento alla realtà degli utenti e alle loro specificità culturali; il suo approccio non esclude gli esiti formali, in quanto il grande Wall è un landmark, e nemmeno quelli per tessuto, rivolti alla micro-scala residenziale e alle relazioni della comunità.

Lo studio Tegnestuen Vandkunsten è in prima linea e realizza tra l’altro il complesso di Savvaerket, dove lungo un percorso coperto a galleria si aprono attrezzature di filtro tra la scala privata e quella collettiva. Il progetto è localizzato a Jystrup in Danimarca e organizza 21 unità di vario taglio e superficie adatte a ospitare i diversi tipi di residenti che rispondono alla differenziazione sociale e generazionale del programma di Cohousing.      La strada interna si divide a “L” in due braccia e ha andamento segmentato che ne riduce la dimensione percettiva. Lungo il suo sviluppo sono localizzati dei servizi quali la lavanderia, camere per ospiti, il laboratorio di cucito e di falegnameria mentre all’incrocio delle due braccia si trova la sala comune.  Lungo il percorso di distribuzione si realizza una soft edge (spazio di filtro tra privato e collettivo) che ha una serie di piccoli spazi e attrezzature di estrema importanza per l’effettivo raggiungimento degli scopi comunitari. Il Cohousing realizza una sola filosofia di abitare, ma anche un modo di promuovere, sviluppare, progettare, realizzare e gestire il complesso ed elabora un preciso gruppo di informazioni.
Il punto più alto di questa ricerca sull’architettura della partecipazione è il Byker Wall a Newcastel in Scozia di Ralph Erskine, processo iniziato nel 1969 e protrattosi per circa dieci anni. Per seguire la complessa vicenda della progettazione e della costruzione Erskine crea la sede del suo studio in un edificio riadattato all’interno del quartiere. Lo studio è anche la sala comune del quartiere e il luogo delle riunioni tra abitanti e architetto e il luogo simbolico del progetto. Erskine progetta un grande muro ondulato in pianta e in sezione che si muove sulla pendice della sommità di Nwecastle. Il muro dialoga con la città segnando un profilo altalenante e allo stesso tempo racchiude e protegge termicamente l’intervento. Due trattamenti opposti lo caratterizzano sui diversi fronti. Verso settentrione è formato da una scorza dura in laterizio mutlicolore con alcune sporgenze volumetriche che mordono il cielo, metro la parte interna, prevalentemente a meridione e concava è caratterizzata dai percorsi di distribuzione, dalle terrazze, dalla vegetazione e da un mondo informale che accoglie ed esalta la luce. Il muro contiene alloggi di piccolo e medio taglio serviti attraverso un percorso pensile, ma con il suo andamento protegge anche climaticamente il resto del complesso, che è formato da case a tessuto di due o tre piani che determinano quel misto di situazioni spaziali di diversa caratteristica.

21.Al centro, la lingua
L’altro sessantotto
“Tais toi, object”; questo slogan incarna quella doppia anima che caratterizzerà la biforcazione del mondo delle arti e naturalmente dell’architettura degli anni seguenti. Da una parte il contenuto sta ad indicare la volontà di liberazione dalla schiavitù meccanica, quindi si rivendica la consapevolezza e la partecipazione dell’individuo ai processi sociali, politici e interpersonali. Ma dall’altra parte “Tais toi, object” rileva un gusto estremo per il linguaggio in sé, per la sua struttura, per la sua propria autonoma forza.
Questa doppia direzione è evidente innanzitutto nelle arti. Ad’ esempio con la nascita dell’arte povera, la Boby Art o l’Arte comportamentale e con artisti come Pistoletto, Pascali, Kounellis.
Su questa direttrice nasce in questi anni un’architettura che si pone come riflessione sui propri meccanismi e sui propri statuti. Il linguaggio in sé diventa il centro della riflessione architettonica e il luogo centrale del dibattito.
Per capire questa impostazione bisogna allineare una serie di fenomeni e di influssi. Per il campo della filosofia abbiamo le ricerche di Linguistica strutturale, con attenzione agli studi di Saussure di inizio secolo poi di Jakobson e della Scuola di Praga e alla stessa logica formale di Russell e Wittgenstein. L’architettura è pervasa/invasa da questo interesse per la lingua, per la sua logica e quindi dalla rivendicazione di essere, l’architettura stessa, in primis “linguaggio”. Colin Rowe aveva lavorato da alcuni decenni su quest’impostazione formalistica. John Summerson dedica un libro alle categorie di analisi linguistica e ai rapporti stretti che legano tra loto gli elementi del linguaggio e pubblica nel 1963 il linguaggio classico dell’architettura e Bruno Zevi in Italia contrappone al linguaggio classico le invarianti moderne in il linguaggio moderno dell’architettura del 1973. Qui si tratta di un anticodice che stabilisce una serie di negazioni (no al monumentalismo, no alla simmetria), non le regole come nel caso del linguaggio classico. Inventario di contenuti e funzioni, asimmetria e dissonanze, tridimensionalità antiprospettica, decomposizione, strutture in aggetto ecc…
Nascono scontri furiosi sul linguaggio dell’architettura. Naturalmente Aldo Rossi ha codificato un preciso apparato espressivo volutamente “anti moderno” perché basato sui tipi di origine metafisica e su una serie di memorie di forme plastiche distillate dai ricordi personali e da archetipi sovrastorici. In America emerge un gruppo di architetti che sostengono l’estremizzazione del momento sintattico e formale in una chiave completamente astratta. Sono i New York Five.


I NY Five
I componenti del New York Five sono: Peter Eisenman, Michael Graves, John Hejduk, Richard Meier, Charles Gwathmey poi associato con Robert Siegel. Peter Eisenman, appare da subito la personalità di maggior spessore teorico. Esso educato al formalismo di Colin Rowe, si era addottorato con una tesi che si intitolava The Formal Analysis of Modern Architecture. Il lavoro si concentra sull’analisi esclusivamente formale degli edifici e rivendica la centralità dei processi linguistici e sintattici che presiedevano l’opera. Un secondo influsso in Eisenman è quello dell’arte concettuale che, sul fronte opposto all’arte povera, si muoveva per promuovere un’assoluta scarnificazione delle forme. Ma il centro più profondo è nella posizione del filosofo e psicologo Michel Foucault. Il giovane Eisenman sostiene con Foucault che nessuna rivoluzione è avvenuta nell’architettura moderna perché persiste la stessa posizione del Rinascimento, una posizione umanistica che sempre pone al centro l’uomo. Bisogna spostare fuori dall’uomo la riflessione e il ragionamento dell’arte. Il modernismo termine apparentemente mutuato da Foucault, per Eisenman rappresenta la rottura della centralità umanistica, l’esaltazione del momento autoreferenziale e autonomo della ricerca estetica. L’oggetto-architettura deve esistere di per sé, rispondere alle sue leggi interne, non derivare o acquisire valore da un contenuto umano. L’uomo non è causa e ragione. Oggetti ed edifici sono idee.
L’architettura diventa “testo”, per rappresentare “la struttura formale di una narrazione”, non per veicolare il complesso dei significati ideologici, funzionali, sociali, costruttivi.
Le case
Eisenman sa che la merce del mondo occidentale è diventata la conoscenza. Ma essa deve essere “formalizzata”: resi espliciti, trasmissibili e comunicabili i meccanismi di legittimazione dell’opera. Assieme agli schemi nasce cosi una formula che colpisce e fa guardare il mondo delle costruzioni come una lente diversa. Architettura di Carta. Cosi a cominciare dal 1967 Eisenman progetta una serie di case che, come composizione musicale, portano un numero progressivo. Le case vogliono essere di carta non tanto per il loto aspetto leggero, quasi immateriale, quanto per sottolineare il substrato concettuale che le ha generate. Ma per progettare serve un linguaggio ed Eisenman non ne possiede ancora uno e sceglie quello meno consumato nel contesto statunitense del momento. Rowe lo aveva mosso alla riscoperta del Purismo Lecorbusiano, del Neoplasticismo e soprattutto del Razionalismo di Terragni, Lingeri o Cattaneo. Lui principalmente è attratto da due opere di Terragni: la casa del Fascio e la casa Giuliani-Frigerio.
La casa del Fascio di basa su un processo di estrazione di materia e di stratificazione verso l’interno, la Giuliani-Frigerio invece si muove dall’interno verso l’esterno con una esplosione delle parti secondo una logica sintattica più vicina al Neoplasticismo. Il problema per un ricercatore come Eisenman è quello di lavorare dentro questa differenza e tensione tra estrazione ed esplosione.
Nella House II (Residenza Falk a Hardwick, 1969-70), avvicinabile al Neoclassicismo, presenta il conflitto. Eisenman riprende dalla Casa del Fascio l’idea di un quadrato in pianta che viene compresso in alzato nello stesso rapporto di ½ adoperato da Terragni. Ma il semi cubo che egli genera non è più compatto perché viene modulato tridimensionalmente in nove quadrati che vengono abitati lungo una “L” e lasciati liberi nella doppia altezza della corte interna (una geometria estranea alla Casa del Fascio e alla Giuliani-Frigerio). Quindi lui lavora molto sullo slittamento e sovrapposizione dei cubi, per lasciare posto alla circolazione verticale e orizzontale anch’essa derivata da Terragni e che Eisenman adotta anche in alzato. La perimetrazione esterna richiama la presenza della forma primaria e lo stesso uso del telaio della Casa del Fascio, ma l’interno mette in azione lo slancio dinamico della Giuliani-Frigerio. Il telaio di conseguenza non definisce più, come nella Casa del Fascio, intagli geometrici sul cubo, ma diventa un piano astratto, una struttura trasparente lasciata all’esterno per trattenere i piani che esplodendo vorrebbero eliminare la gabbia.
La soluzione che Eisenman dà al conflitto che aveva scoperto in Terragni ha una parola: implosione. Un’esplosione delle pareti, dei piani, dei volumi che non invade l’interno, ma che è rivolta verso il dentro, verso sé stessa. Una violenta reazione chimica viene trattenuta ed esaminata dentro una provetta.
Differenze e diagrammi
I temi posti in maniera estrema del teorico del gruppo Eisenman hanno sviluppo negli altri architetti del New York Five. Le opere di Hejduk elaborano una delle componenti della ricerca lecordusieriana ( i volumi puri), innestandovi le tarde composizioni del maestro: oggetti a reazione poetica sono lanciati nello spazio e collegati da meccanismi di percorso che anch’essi diventano oggetti. Le prime case di Graves giocano con il collage, una presenza quasi surreale di pennelli dipinti e soprattutto con un uso prezioso del colore. Le opere di Meier invece partono dal programma organizzativo. Il bianco è il non-colore che adotta sempre e il suo comporre astratto si basa in realtà su una nuova forma di figurazione. Non più quella tradizione degli elementi e dei punti di vista privilegiati, della simmetria e degli ordini, bensì quella delle funzioni. I collegamenti sono le basi del suo comporre. Meier in questa fase è un abile e dotato meccanico delle funzioni come dimostrano gli schemi che sempre accompagnano i suoi progetti.
Alla metà degli anni settanta in portogallo comincia ad affermarsi il lavoro di Alvaro Siza che mosso da un ispirato geometrismo cerca di captare i caratteri spirituali di semplicità austera di alcune costruzioni della sua terra. In Giappone muove i primi passi l’architetto Tadao Ando che rivela sin dal Complesso Rokko e Kobe, realizzato a partire dal 1978, un senso forte e potente della forma architettonica che progressivamente acquisterà grande sapienza nel controllo della luce, dello spazio intercluso tra gli edifici. Sono alcuni temi che arrivano ad Ando a partire dalle lezioni di Louis Kahn e che sono praticati anche dal giovane Mario Botta. Formatosi in Italia, l’architetto ticinese crea opere che forme pure a contatto con l’ambiente. Le sue popolarissime case, in particolare quella di Riva San Vitale del 1973, che rimane tra le sue opere più suggestive, elaborando una dialettica di contenitore-contenuto (contenitore è una scatola vuota entro la quale di colloca uno scrigno articolato e libero). Sempre in Ticino opera lo studio di Campi e Pesina che con altri crea una scuola di pensiero che da una parte guarda al razionalismo italiano dell’altra al dibattito internazionale. Cosi i nomi di Botta, Vacchini, Snozzi, Galfetti, Rchat, Campi, Bianconi, Gianola, Reinhard e Reichlin hanno identificato, nel programma internazionale, una ricerca di onestà costruttiva, di aderenza ai dati del programma, di eleganza di forme e proporzioni che nascono dalle ragioni profonde del progetto e non da facili effetti di facciata.
22.Post-mo
Inclusivismo
Alcuni critici come Peter Blake avevano cominciato ad attaccare con forza le impostazioni del Movimento moderno, il vero evento critico è l’uscita di un fascicolo di “Architectural Design” nel 1977 dopo poco edito in un libro con medesimo titolo: Post Modern Architecture. Qui un architetto e critico americano, Charles Jencks, ripercorre le vicende dell’architettura del dopoguerra; tre aspetti sono centrali nel suo discorso e nella successiva posizione chiamata “post-moderna” in architettura. Il primo è quello di un ritorno consapevole della figurazione contro l’astrazione. Il secondo elemento significativo del discorso post-moderno è la centralità nuova che assume il luogo, ovvero il contesto in cui sorge la nuova architettura. Il terzo, strettamente legato al precedente, è l’assunzione di centralità del tema della “città”. Torna la strada, la piazza, il blocco urbano e l’isolato come d’altronde Aldo Rossi aveva da un quindicennio teorizzato.
Il museo
La data del 1973 è simbolica. Lo scoppio della crisi petrolifera, che spinse a provvedimenti di austerità in tutto il mondo occidentale, porta alla luce i limiti di uno sviluppo basato sull’uso indiscriminato delle risorse naturali. Il centro di interesse si sposta dall’espansione alla conservazione: il miglioramento degli spazi e delle strutture esistenti sale al primo posto. Questo mutamento comporta anche un’attenzione al museo che sostituisce nella ricerca architettonica la centralità che gli auditorium o le grandi attrezzature sportive avevano svolto nel decennio precedente. Quindi innesta un processo che diventerà sempre più marcato verso la multifunzionalità dell’organismo non solo nella diversificazione dell’offerta espositiva, ma anche attraverso l’inserimento di strutture commerciali, ricreative ed educative. La Germania è il paese all’avanguardia di questo modo di impostare il tema museale. L’inglese James Stirling e l’austriaco Hans Hollein ne sono due tra i più attenti interpreti, perché la presenza del frammento fa parte del loro repertorio espressivo.
La condizione manierista. Stirling e Hollein
James Stirling è negli anni settanta uno degli architetti di maggiore successo internazionale e senza dubbio uno degli interpreti più intelligenti delle caratteristiche di transizione di questa fase. Nei primi anni 50 realizza un piccolo progetto di Housing (Case a Preston), dal progetto emergeva una ricerca che guardava ad alcune forme ricorrenti e ad alcune immagini tipiche dei sobborghi industriali inglesi. Quindi l’intervento non si dava come soluzione funzionale al programma, ma era “prima” una composizione di immagini e solo “poi” soluzione al tema. Nei primi anni settanta, Stirling amplia il suo repertorio di riferimento e comincia a essere interessato a quanto precede la tradizione modernista. In un progetto emblematico come quello per il centro di Derby è evidente che all’abituale repertorio di citazioni moderniste delle opere precedenti si sposa una ricerca di un impianto tipologico ben riconoscibile (nello spazio a galleria anulare) e un’apertura alle citazioni classiche. Stirling rappresenta in questa fase una posizione che viene etichettata “manieristica”, termine in gran voga anche per un insuperato e bellissimo saggi di Arnold Hauser appunto sul manierismo.
La città di Stoccarda, in Germania, è tra le prime che riesce a completare un’opera che incorpora quest’insieme di caratteristiche. Nel 1977 James Stirling vince un concorso per realizzare un Museo d’arte, dove lui estende la sua attenzione dell’eredità formale dei padri del moderno a un patrimonio ancora più vasto. Studiando Schinkel e il neoclassicismo tedesco del XIX secolo scopre la rilevanza che assume il tema della centralità nelle organizzazioni museali e caratterizza il centro del complesso come una piazza rotonda circondata da rampe. Studiando Aalto è affascinato da alcuni andamenti obliqui delle pareti e crea un muro a doppia inclinazione che ne è diretta emanazione. Le finestre degli uffici riprese da quelle di Le Corbusier nel Weinsenhof. Allo stesso tempo Stirling riesce a tenere quasi incredibilmente “insieme” l’opera sviluppando il tema del frammento, della rovina e sposando il “non finito” pur ricorrendo a un impianto planimetrico molto rigido. Un atteggiamento vicino a quello di Strirling è quello dell’architetto Hans Hollein che della doppiezza, dello stridore degli accoppiamenti, insieme a una notevole forza inventiva, una propria caratteristica.  Anche Richard Meier inizia nella seconda parte degli anni settanta una produzione che si farà particolarmente estesa sul tema museale. Meier non adotta la logica frammentaria e collegista di Stirling e Hollein, ma adotta un linguaggio astratto di derivazione neoplastica.
Il centro è dove è l’azione
L’architettura trattata in questa parte non è riuscita a imporre una generalizzata presa di coscienza delle istanze libertarie della nuova società perché le sperimentazioni, sono rimaste del tutto minoritarie; sul fronte critico dell’analisi del testo si è chiusa in un autocompiacimento sul linguaggio e sulla sua autonomia vuoi nel versante delle forme pure e metafisiche italiane che in quelle neoplastiche dei newyorchesi. Forse per trovare architetture veramente persuasive, bisogna tornare a guardare architetti e costruttori fuori dai circuiti consolidati: il grande Oscar Niemeyer che continua il suo lavoro originale e forte, l’indiano Charles Correa, alcuni liberi e quasi selvaggi, instancabili sperimentatori come Amancio Pancho Guendes in Monzambico. Si può parlare di architettura, di linguaggio, senza dover sempre legittimare pragmaticamente, razionalmente, funzionalmente ogni scelta. Si può accettare l’eterogeneità delle fonti di ispirazione, si possono ibridare generi e ricerche e il contesto sta per diventare una chiave imprescindibile del lavoro dell’architetto contro ogni pura astrazione meccanicistica.
E nel 1977 si compie un dramma, troppo poco ricordato. Takis Zenetos è un architetto greco geniale e impegnato nella costruzione e anche nella ricerca dell’impatto dell’elettronica nella città nell’architettura. Zenetos non è stato solo un giovane utopista come poche o nessuna costruzione alle spalle (come furono nel corso degli anni sessanta alcuni architetti), ma ha costruito opere di qualità che alimentavano i temi della sua ricerca sul tema dell’elettronica e allo stesso tempo da questi venivano arricchiti. Si uccise tuffandosi nel vuoto. A guardarlo oggi è un gesto drammatico e sommo. Un suicidio per l’architettura.

<<Gli anni 70 erano pieni di speranze e poi tutti si sono depressi, e i 70 sono stati terribili>>
                                                                                                                                                        John Lennnon


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